Storia e mito dell'allevamento bufalino in Italia, dal Medioevo ai giorni nostri

E’ interessantissimo cimentarsi nella scoperta della storia del bufalo nostrano, perché è controversa e lunga, misteriosa e strana, un vero giallo zoologico. Il bufalo italiano (Bos Bubalus) appartiene alla famiglia dei bovidi ed è originario dell’India orientale. Il suo
nome deriverebbe dal latino parlato Bufalum citato in questo modo in testi anche medioevali. Secondo alcuni studiosi ed esperti e ricercatori questo animale fu introdotto in Italia in epoca longobarda, durante le famose invasioni barbariche del VI° secolo. Secondo altri invece, furono i re normanni che, intorno all’anno 1000, dalla Sicilia, dove il bufalo era stato introdotto dagli arabi, lo diffusero in tutta l’Italia meridionale. Gli studiosi però non sono tutti di questa opinione e c’è anche chi sostiene l’origine autoctona di questo animale tanto che vi sono testimonianze come il ritrovamento di resti fossili nella campagna romana e nell’isola di Pianosa, nell’arcipelago toscano, ed i risultati di recenti studi che proverebbero una diversità filogenetica tra il bufalo italiano e quello indiano. Anche dal museo di Pofi il paleontologo professor Italo Bidittu, che abbiamo incontrato, proprio per saperne di più, conferma questa versione.

Torniamo a quei pochi frammenti che ci aiutano a ricostruire questa controversa storia. La diffusione della bufala nel nostro paese conosce un sensibile sviluppo all’inizio del XI secolo, quando con l’impaludamento dei territori campani del basso Volturno e del Sele, i terreni assunsero le caratteristiche ambientali più adatte all’allevamento bufalino, anche nelle zone laziali attualmente comprese tra il frusinate e la pianura pontina, quindi anche la zona che oggi è diventata l’indotto del latte frusinate: la Valle dell’Amseno.
La scarsità di fonti bibliografiche, rende difficoltosa la trattazione dell’origine e della diffusione del bufalo in Europa e quindi nella nostra penisola. Sembra che anche nell’abbazia cistercense di Fossanova i monaci usassero questi grandi animali per drenare l’acqua dai fossi, come riportato nelle antiche cronache citando il bubalus. La presenza di questi animali in Italia può collocarsi in modo certo tra il XII e XIII secolo. All’inizio di questo millennio l’allevamento bufalino si sviluppò all’interno dei grandi ordini monastici, come prima accennato, i quali durante il medioevo operavano attivamente nel campo agricolo e nell’allevamento; ne sono testimonianza alcuni documenti tra cui quello ritrovato nell’Archivio Episcopale del XII secolo intitolato “il mazzone nell’antichità e nei tempi moderni”, da cui si evince che il consumo dei formaggi bufalini in quell’epoca era entrato nel consumo sia ecclesiastico che laico.

Un’altra importante citazione si trova negli “Acta Imperia Seculi XII e XIV”, da cui apprendiamo che la valutazione commerciale del capo bufalino era superiore a quella del capo bovino. Nel 1300 quindi, l’allevamento bufalino era una realtà economica ben radicata nel centro e nel sud Italia, nello Stato Pontificio e anche al di fuori del Lazio, tanto che intorno al 1360, a Roma, si hanno notizie di un regolamento che disciplinava il commercio di bufali e del cuoio bufalino, robusto e forte, che serviva anche per le cinghie delle carrozze e altri finimenti resi eleganti da accurate lavorazioni artigianali fatte dalla scuola romana e partenopea. A partire da questo periodo, la bufala divenne la regina incontrastata delle zone paludose, quando all’impossibilità di coltivazioni, si unì la malaria, che provocò lo spopolamento progressivo di questi territori da parte dell’uomo. Il disordine idrogeologico e l’impaludamento di molte zone costiere della penisola, crearono le condizioni favorevoli alla diffusione dell’allevamento bufalino che cominciò la sua espansione in Campania, nel Lazio e nelle Marche. I bufali erano e sono tutt’oggi animali forti e resistenti alle malattie, capaci di fornire anche in condizioni climatiche ed ambientali molto difficili, il proprio contributo al lavoro dell’uomo a costi quasi nulli, animali mansueti e docili che hanno supportato i lavoro dell’uomo in ambienti impervi e condizioni climatiche davvero particolarmente difficoltose.
I secoli XII e XIII testimoniarono una vera e propria svolta in questo tipo di settore agricolo in Italia. Nacque in tale periodo la figura del bufalaro, abituato ad allevare le bufale allo stato brado o semiselvatico, da utilizzare per arare i terreni compatti o come animali da soma nelle zone acquitrinose, dove i loro zoccoli lunghi e larghi assicuravano una salda presa, il loro peso dava stabilità la loro forza garanzia di lavoro. Altra ricchezza di questi animali era la produzione di latte in abbondanza nei periodi invernali, dal quale si producevano formaggi, burro, ricotta e provole. Nella seconda metà del millennio, l’allevamento bufalino divenne una realtà economica e sociale diffusa soprattutto nelle zone paludose dell’Italia centrale e meridionale. L’allevamento era basato sulla transumanza e sull’aspetto del tutto selvatico del comportamento degli animali.

Tra il XVII e il XIX secolo l’allevamento delle bufale era diffuso saldamente in gran parte delle zone centrali e meridionali della penisola. Il latte che in principio era lavorato e trasformato in formaggi nello stesso posto in cui si effettuava la mungitura, a partire dal 1600 venne lavorato nelle “bufalare”, costruzioni in muratura di forma circolare con un camino centrale che permetteva sia di riscaldare il latte per la cagliata, sia di fornire acqua calda per il modellamento delle forme. All’inizio del XIX secolo l’allevamento bufalino era ancora caratterizzato da sistemi di stabulazione primitivi; utilizzava infatti un sistema semiselvatico, che richiedeva investimenti, spese e rischi ridotti al minimo, generando una vera e propria fortuna per le regioni paludose che non avrebbero potuto trovare nessun altra forma di sfruttamento e quindi reddito.
George Vasey, nel suo "A monograph of the genus bos. The natural history of bulls, bisons and buffaloes" edito nel 1857, a proposito del bufalo italiano scrive: "Questo animale è più grande e robusto rispetto al bue domestico. La testa è grande, in proporzione alle dimensioni del corpo, di quello del bue domestico, il muso sporgente; la fronte è piuttosto convessa, più alta che larga; le corna sono grandi, leggermente compresse, e si adagiano verso il collo, con le punte in alto.
Nella penisola i Bufali italiani vengono utilizzati come bestie da soma, e la loro forza immensa rende i loro servizi inestimabili nelle zone paludose e acquitrinose, dove i cavalli e i buoi sarebbero totalmente inutili.
Nelle vaste pianure della Puglia il bufalo è molto diffuso; alla fiera annuale che si tiene a Foggia alla fine di maggio, immensi branchi di bufali selvatici sono portati in città per essere venduti. Di tanto in tanto, poi, questi animali attaccano l'uomo e provocano incidenti anche mortali se irritati o troppo sfruttati. Il bufalo vive e prospera nelle zone dove è diffusa la malaria. Nelle paludi pontine e nella pestilenziale Maremma essi trovano il loro habitat ideale, nelle zone dove altri animali non potrebbero sopravvivere. Il bufalo è un animale quasi anfibio, predilige le zone umide e paludose e ama passare lunghe ore sdraiato mezzo sommerso nelle pozze di acqua e fango.
La carne di questo animale è qualitativamente inferiore alla carne del Bue domestico, ma il latte della femmina è particolarmente ricco, abbondante e nutriente da consumare fresco o per preparare formaggi e latticini."


Nel XX secolo, con l’avanzare delle opere di bonifica, l’allevamento bufalino vide restringere il suo territorio, ma non modificò le sue caratteristiche semiselvatiche e primitive. Le prime innovazioni si ebbero solo con l’operatività della legge sulla bonifica integrale, la completa trasformazione avvenne grazie alle norme della riforma agraria delle terre incolte. La bonifica dell’ Agro Pontino, della Bassa Valle del Sele, del Volturno e delle altre zone d’Italia del periodo prebellico e la riforma agraria del secondo dopoguerra, restrinsero l’area d’allevamento delle bufale a limitate zone della Campania, del Lazio il nostro frusinate e l’agro Pontino e della Puglia. In quest’epoca l’allevamento ebbe una svolta decisiva di rinnovamento passando dalla tradizionale forma semiselvatica e itinerante, ad una compatibile con il nuovo assetto territoriale. Si andava così affermando l’allevamento moderno della bufala, dove oggi tecniche e macchinari sempre più moderni, ne fanno un settore all’avanguardia e pronto a nuove sfide e orizzonti.

Nel 1954 per la prima volta al mondo, una bufala fu munta con una mungitura automatica e attualmente dopo 50 anni i progressi della tecnica e le nuove scoperte nel campo della microbiologia, hanno permesso di dotare gli allevamenti di apparecchiature sofisticate che permettono di abbattere la carica microbica nelle fasi di mungitura e di lavorazione del latte. Oggi al pari dei più moderni sistemi di allevamento bovino gli allevamenti bufalini sono dotati di un sistema di riconoscimento del bestiame rappresentato da una targhetta riportante un numero a quattordici cifre, imposto dall’anagrafe dell’Unione Europea, e altre due, rispettivamente con il numero aziendale e il numero del libro genealogico.
Nel corso del tempo quindi, le tecniche di allevamento e di trasformazione si sono molto evolute e oggi l’allevamento bufalino o dei bovidi è un settore in grande espansione. Gli animali sono tenuti in una forma di allevamento stabulato, costituiti da paddocks con laghetti artificiali e tettoie necessarie per proteggerli dalla calura estiva. Le bufale pascolano in un regime di semilibertà e i rigidi controlli sanitari mantengono gli allevamenti indenni da malattie come la brucellosi e la tubercolosi, in modo da poter lavorare il latte crudo senza sottoporlo a pastorizzazione. Tale strategia consente di lavorare il latte senza alterare la flora microbica specifica responsabile dell’aroma e del gusto del principale prodotto derivato: la mozzarella. Nell’ultimo decennio l’allevamento bufalino ha subito un notevole incremento a livello mondiale e ancora di più a livello nazionale se paragonato ai dati relativi all’allevamento bovino.

Per questa ricerca sono stati usati materiali, tesi di dottorato dell’Università Federico II di Napoli ( si ringraziano inoltre il Cab, consorzio allevatori bufalini Valle dell’Amaseno, il dottor Michelino Ercolino, presidente dell'Ordine degli Agronomi; sono stati consultati i testi: "Dall’indo all’Amaseno" di Alberigo Magni e "L’oro Bianco di Amaseno" di Facci e Lauretti e la guida turistica Amaseno "Tra arte e gusto", il sito web mozzarelladibufala)

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